La corsa non è un’attività che pratico abitualmente, ma la pausa estiva di altri sport a cui mi dedico più assiduamente come tennis e calcetto, mi ha spinto ad avvicinarmici. In effetti, un po’ di curiosità me l’aveva già messa Linus su radio Deejay. La sua passione è così sviscerata che quando racconta di maratone a Roma, a New York o a Londra cresce esponenzialmente dentro di me la voglia di allenarmi per raccontare di aver corso sotto il Colosseo o essere passato per Piccadilly Circus e Trafalgar Square( e magari di non esserci transitato in ultima posizione…).
Tornando alla realtà, per ora, l’unico paesaggio che vedo( ma che sento soprattutto) è quel del Naviglio di via Ludovico il Moro. Correre per 6 km non è un’impresa incredibile eppure, per ora, le visioni arrivano anche prima della metà della distanza da percorrere. Senza contare che con Davide, il compagno di allenamenti (sempre che la parola allenamento non si offenda), proviamo a parlare per i primi 500 metri poi subentra l’apnea per lo sforzo e la parte rimanente del tragitto è occupata dai pensieri.
Mancavano circa 2 km alla fine l’altro ieri, quando mi è venuta in mente la storia di un protagonista dell’atletica leggera che avevo letto su un libro. Il campione è Emil Zatopek e la sua avventura alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 è raccontata da Ugo Riccarelli:
Ai giochi olimpici di Helsinki aveva vinto i cinquemila, i diecimila metri. Gli restava la maratona, e lui volle provare. Mai un uomo era riuscito a vincere tutto quanto insieme, nessuno aveva mai neanche osato tanto. La maratona non è corsa di sola resistenza. È una discesa nell’anima, è coraggio, tattica e fatica. Richiede particolare conoscenza e dedizione, così che la corrono soltanto specialisti. Zatopek si presentò ignaro alla partenza, essendo la prima volta che tentava. Inoltre aveva nelle gambe altre vittorie, altre distanze, e la volontà e la speranza che quei suoi allenamenti potessero aiutarlo nell’impresa. Aveva l’umiltà dei grandi e all’avvio, invece di comportarsi da sconsiderato, si mise dietro ai talloni dell’inglese Peters, che era il campione da tutti favorito.
La corsa partì e Zatopek cercò di resistere al passo regolare dei maratoneti, ma ebbe qualche difficoltà e dovette impegnarsi a recuperare. Arrivato al quindicesimo chilometro, raggiunti gli altri, si guardò attorno nel gruppetto. Si sentiva un pesce fuor d’acqua, un principiante. Forse temette di sbagliare, di essersi imbarcato in un’avventura più grande di lui, un esordiente ficcato in quella corsa da massacro senza conoscere i tempi giusti per danzare. Perché correre in resistenza è simile all’andare in musica, al ticchettio di un orologio. Bisogna fare e rifare sempre la stessa mossa, quella caduta in avanti interrotta, ma con una giusta spinta, con cadenza precisa, affinché la molla non si spezzi o non si consumi la carica prima che l’ora sia arrivata. Così, davvero ingenuo, affiancò Jim Peters che guidava la corsa e in un inglese semplice, a stento, gli domandò se il suo fosse un buon passo, se fosse troppo accelerato o invece troppo lento.
“Scusami” gli disse, “ma sai, è la mia prima volta.”
Quell’altro era duramente impegnato(avrebbe poi ammesso che l’andatura era già molto sostenuta)e si indispettì per l’insolita domanda. Forse anche nella speranza di tirare un colpo basso al ceco gli disse che sì, il passo era troppo lento, e con quel ritmo leggero non sarebbe mai arrivato. Così il neomaratoneta, preoccupato, rispose con un grazie di cuore e aumentò la corsa, staccò i concorrenti e arrivò per primo allo stadio dove migliaia di finlandesi ammirati lo attendevano in piedi, acclamandolo.
Pinotto
giovedì, luglio 27, 2006
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